domenica 25 dicembre 2011

Crăciun Fericit


21 dicembre, ore 11, finestra di casa mia. Mi hanno spiegato che non si tratta di colindatori (che cantano canzoni di Natale e appartengono alla tradizione cristiana), ma di una tradizione pagana e pre-cristiana per portare fortuna al nuovo anno. Adorabile, comunque, la musica e le tradizioni che pervadono l'avvicinamento al Natale in Romania. Quindi, Crăciun fericit pentru toți!

giovedì 15 dicembre 2011

Colindatorii


"E questi?", mi son chiesto vedendoli per la prima volta. Fischi, tamburi, vestiti tradizionali e uomini vestiti di pelle d'orso. Anche questo è il Natale romeno. Il giorno stesso di quelli della foto sono arrivati i colindatori a cantare nella scala del nostro palazzo, poi hanno cominciato a bussare ragazzini che chiedevano qualche soldo in cambio di una colindă. Colindă, ovviamente, è un canto di Natale, e i colindatori sono coloro che cantano. Mi ricordo gli zampognari ciociari che passavano sotto la mia scuola quando andavo alle elementari, e adoro quest'atmosfera di musica e tradizione che da noi, purtroppo, si è persa.


venerdì 9 dicembre 2011

Frica de câini

Torno, tra il sollevato e il deluso, dal mio primo esame romeno. Una voce nel mio stomaco mi fa notare che è quasi ora di pranzo, ma io non ho voglia di fare la spesa, di attraversare la strada. Del fatto che c'è un Mega Image pure senza attraversarla mi ricordo...beh, solo dopo averla attraversata verso casa. Allora mi dico che, magari, se giro a destra e provo a passare per la parallela, trovo qualcosa. Contento di esplorare un piccolo angolo nuovo, cammino respirando l'aria bucarestina e trovo una specie di cortiletto con un parco giochi e due cani che dormono. Cauto, passo in mezzo ai due e mi trovo davanti un altro cane. Ringhia. Bastardo. Provo a fare finta di niente, allargo un po' e vado per la mia strada cercando di non dargli le spalle. Quello continua a ringhiare sempre più forte e mi si mette in coda, seguito da altri due cani che dormivano sotto le macchine, ma che si sono svegliati per dargli manforte. Tre vecchietti, vedendomi in difficoltà, fischiano e il cane si blocca. Li ringrazio con un sorriso terrorizzato e continuo a camminare verso casa. Sento che il bastardo corre, ha ripreso a ringhiare. Non devo correre, sarebbe la fine. Mi è sotto, mi è sotto, mi è sotto, mi morde la scarpa...AAAAAH! Lancio un urlo, ma per fortuna uno dei vecchietti ha fischiato di nuovo e ha richiamato il cane. Scosso, finalmente mi allontano e arrivo a casa. Sullo specchio dell'ascensore vedo un tipo pallidissimo che trema e ansima, e penso di svenire.

Io dei cani ho sempre avuto una paura boia. Veramente tanta, fin da quando ero piccolo e i miei amici dovevano legarlo alla catena quando li andavo a trovare. Avevo pure un cane, ma stava sempre alla catena perché a casa non avevamo un cancello. Mio padre lo liberava quando tagliava il prato e lui correva sfrecciando per il giardino mentre io, terrorizzato, lo guardavo da fuori. Il rapporto è migliorato, ma non molto, anche se son riuscito ad avere un cane di cui non avevo paura, che poi è scappato spaventato dai fuochi d'artificio il capodanno di due anni fa. Quando ho letto che a Bucarest c'era un problema con i cani mi sono innervosito: proprio il posto giusto, per uno come me. Eppure mi ero tranquillizzato, forte della sensazione che, se evitavo di rompergli le scatole, loro mi lasciavano in pace. Fino a ieri. Ora spero di ri-tranquillizzarmi in fretta: ho notato che la sola presenza di un cane, nelle ultime ventiquattro ore, mi fa rizzare ogni pelo del corpo, e uno di loro che mi ha abbaiato mi ha fatto fare un salto di paura, di quelli che dopo te ne vergogni. Aiuto!

sabato 26 novembre 2011

Cât mi-e dor de ochii tăi



Litigare col taxista che cerca di fregarti, farle vedere che stai imparando il romeno, farle vedere le cose che conosci, che hai visto, che ti emozionano, spiegarle perché ti senti così a tuo agio in questa città, spiegarle cosa sta frullandoti per la testa. Finalmente, passare una giornata insieme. Prendere il bus che prendi tutti i giorni, andare a mangiare al ristorante insieme e saziarsi di micicârnaţi din Maramureş, e poi avventurarsi addirittura a ordinare două cafele, vă rog. Uscire nell'aria fredda di Lipscani e lasciarsi incantare dal centro vecchio di Bucarest, prendendo ogni stradina, stupendoci per ogni angolo stupendo, anche quelli che ho già visto più volte, ma sui quali non mi sono mai soffermato, avendoli visti da solo, di fretta. E, mentre lei fotografa mille angoli del Centrul Vechi, sorridere riconoscendo le parole di una canzone suonata da un chitarrista per strada, Cât mi-e dor de ochii tăi, come mi mancano i tuoi occhi.



Dopo averle fatto vedere i miei angoli preferiti della città, abbiamo virato verso la Casa Popurului, uno dei simboli della città che la scorsa volta lei non era riuscita a vedere. Prima, però, ci siamo imbattuti in un momento di magia, in una piccola favola orientale ed ortodossa, trovandoci ai piedi del Dealul Patriarhiei, l'unica collina di una città in rigorosa pianura. Ci siamo inerpicati sulla collina (anche conosciuta come Dealul Mitropoliei) fino a trovarci circondati dalla magia delle biserici ortodosse, in una sera invernale illuminata e resa meno silenziosa dai cori religiosi che si sollevavano nell'aria, echeggiati dagli altoparlanti, ma provenienti dalla funzione in corso all'interno della cattedrale patriarcale della chiesa ortodossa romena. Siamo entrati nella cattedrale, rimanendo abbagliati e allo stesso tempo un po' repulsi dallo sfarzo aureo degli ornamenti, osservando un credo diverso da quello a cui siamo abituati ad assistere, con alcuni fedeli prostrati in ginocchio, con i sacerdoti  voltati di spalle, con questi cori magnifici così emozionanti e l'odore di incenso forte nell'aria. Una piazza dai toni fiabeschi comparsa d'improvviso, senza che io mi fossi mai reso conto della sua esistenza: la sede della Patriarhia Română, la piazza San Pietro della chiesa ortodossa autocefala di Romania. La cattedrale (la Biserica Patriarhiei, intitolata agli Sfinții Împărați Constantin și Elena), il Palatul Patriarhiei - ex camera dei deputati del regno di Romania e dei primi diciotto anni della Romania post-1989 ed ex sede della Marii Adunări Naționale, il principale organo di potere della Repubblica Socialista Romena -, la residenza patriarcale e la Clopotnița, il campanile che accoglie i pellegrini al loro arrivo in cima alla collina, la statua di Alexandru Ioan Cuza, il primo principe della Romania unita.

La Casa Popurului, di sera, incute ancora più soggezione che di giorno, con la sua facciata non illuminata, la strada larghissima e quasi vuota che le passa di fronte, il freddo che ti fa espirare condensa e la guardia con il colbacco in testa: puoi fare finta di aver fatto un viaggio indietro nel tempo agli anni '80, mentre passeggi per quella strada così silenziosa. Mentre tornavo dall'aeroporto, dopo aver accompagnato Silvia, la strada vicino all'Arcul de Triumf era occupata da carri armati e mezzi blindati che facevano le prove per la grande parata del primo dicembre, la festa nazionale di Romania che ricorda la dichiarazione di Alba Iulia del primo dicembre 1918. Sarà che una manciata di secondi prima il taxi era sfrecciato di fianco alla Casa Presei Libere, ma per un ostalgico come me Bucarest ha il potere di evocare l'epoca storica che più mi incuriosisce con una forza inaudita. Sarà per questo che amo questa città?

Le foto sono tratte da wikimedia e dal sito di Andrei Pandele.

mercoledì 23 novembre 2011

O Seară Frumoasă

Un po' del fascino invernale e by night di Bucarest:


Una biserică di fronte allo Stadionul Arcul de Triumf


L'Arcul de Triumf


Piața Universitații


La Calea Moșilor appena scesa sottozero


Piața Revoluției e il Memorialul Renașterii, a.k.a. Cartoful


L'ex palazzo del re, ora Muzeul Național de Artă al României


Carol I e la Biblioteca Centrală Universitară da lui voluta

lunedì 21 novembre 2011

Andrii Popa, cel Voinic


Andrii Popa l'aveva sentita e notata la prima volta Wacyl a una serata karaoke a Grozăvești. L'aveva scaricata, e poi si era anche comprato il disco, Mugur de Fluier. Qualche sera in casa, con la chitarra, avevamo anche provato a cantarla io e Oriol. Ci piaceva lo stile molto folk-rock anni '70, e sembrava che fossero un gruppo storico, così quando abbiamo letto che avrebbero suonato al Silver Church a Bucarest, abbiamo deciso di andare. Per lo status di leggenda, il livello musicale del disco e la storia personale della band, però, ci saremmo aspettati ben altro. Poca personalità sul palco, a parte il chitarrista/fondatore Nicu Covaci e il batterista Ovidiu Lipan, detto Ţăndărică. E del folk-rock che ci aspettavamo erano rimaste solo tracce, soffocate da un banale heavy metal. Per giunta, per grande disappunto di Wacyl, non hanno suonato Andrii Popa.

I Phoenix, però, hanno una storia davvero interessante. Fondati nel 1962 a Timișoara con il nome di Sfinții ("Santi") e dediti a cover di Beatles, Stones e Who, tre anni dopo furono costretti dalle autorità comuniste a cambiare il nome, che portava troppe eco religiose. Gli anni '70 sono il periodo più interessante della storia della band: nel 1970 uno dei membri fondatori, Florin Bordeianu, riuscì a emigrare negli Stati Uniti e, nel suo ultimo concerto, si profuse in un'invettiva contro il regime comunista. Dopo quel concerto il gruppo, colpito dalla censura, rimase inattivo per diversi mesi. Sempre su pressione della censura, al loro ritorno, i Phoenix decisero di cambiare genere e lasciar perdere le influenze occidentali, scomode per il regime, ispirandosi in maniera più marcata al folk e alla musica tradizionale. Il loro disco del 1972 è il secondo LP mai registarto in Romania da parte di una band romena. Le velate critiche al regime comunista continuarono ad attirare gli strali della Securitate sul gruppo e nel 1976 Covaci si sposò con un'olandese e lasciò il paese. Tornerà l'anno seguente, per portare aiuti a Bucarest colpita da un grande terremoto. Dopo due concerti storici, a sorpresa, Covaci lascerà di nuovo il paese, riuscendo a far attraversare il confine ai suoi compagni di band nascosti in degli amplificatori.

lunedì 7 novembre 2011

Un colet la poșta

A Como in treno non ci vado da una vita. Ha un sapore speciale arrivare alla stazione Como Laghi: le rotaie attraversano piazza del Popolo (fu piazza dell'Impero) e i vagoni trottano lenti tra il teatro Sociale, il duomo e la Cà da védar, la Casa del Fascio di Como. Infine, il treno ferma le sue ruote in una vecchia stazione con tre binari, un muro di pietre e una struttura di ferro, e uscendo la prima cosa che si vede è il lago che risplende o che ti osserva cupo d'inverno. Le Ferrovie Nord e questa bizzarra urbanizzazione hanno regalato qualcosa di magico e unico alla tratta che ha il suo capolinea in riva al lago, e io spero di potermelo godere ancora tante volte nella mia vita. Como era una tappa fissa di quando ero ragazzo, liceo e primi anni di università. Acquistavo tanta musica, era la mia vita, e ogni gita a Como coincideva con una puntata al Vertigo, a muovere le dita tra gli scaffali e scegliere un cd.

Ricordo quando comprai Aqui Estamos degli Atarassia Gröp: arrivai alla stazione, salii sul vagone, scartai il disco e lo feci partire nel mio lettore cd, tenendo tra le mani il libretto dei testi e emozionandomi a ogni frase che lasciava un lampo nel mio cervello. L'autore di quei testi era Filippo Andreani, chitarrista degli Atarassia. Che poi c'è anche tutta una storia di macellai, chitarre e batterie alla Coop di Cadorago che ha fatto sì che una volta con un mio vecchio gruppo suonassimo nel bel mezzo di un loro concerto. Erano tempi che ricordo sempre con un po' di nostalgia, in cui c'era un fervore punk mica da poco in provincia. Poi non so se si sia affievolito o se semplicemente mi sia allontanato io. Mi manca però un sacco l'atmosfera dei concertini ogni giovedì sera, di ritrovare qualche amico e sapere che avrebbe suonato la settimana dopo da qualche altra parte e di aver già deciso di andarci.

Oggi mi son svegliato sverso. Dormito male tutta notte, sveglia presto di lunedì mattina per andare al corso di romeno, due macchinette del caffè che non funzionano e una che mi frega i soldi. E in più il caffè finalmente preso da Roco, di fronte all'Università, beh...è stato gettato nella spazzatura dopo appena un sorso. Uscito da lezione mi sono diretto verso Arcul de Triumf, un appuntamento alla FRR per delle ricerche storiche. Sballottato di qua e di là, parlando puțin românește e a bit of English, ottengo un numero di telefono e un libro in prestito. Camminando per Parcul Herăstrău per riprendere la metropolitana uno scoiattolo improvvisamente mi attraversa la strada, e la giornata sembra voler decollare, accompagnata da Warren Zevon e Bruce Springsteen che mi cantano Disorder in the House nelle orecchie. Arrivo a casa, apro lo sportellino metallico della posta e trovo una busta bianca delle Poste Italiane, corredata dal mio indirizzo bucarestino, dall'indirizzo tremezzino di Sench che mi aveva promesso un pacchetto in arrivo, e da francobolli raffiguranti il Giro d'Italia, Dorando Pietri e Jurij Gagarin.

Entro in casa col cuore che sorride, canticchiando felice. Dentro alla busta c'è Scritti con Pablo, il nuovo disco di Filippo Andreani. Anche lui è cambiato, rispetto a quando io facevo gite in treno a Como per comprare dischi. È diventato un cantautore seguendo una storia sbagliata di partigiani sul lago di Como e, evidentemente, ci ha preso gusto a raccontare le sue poesie sostituendo la rabbia con una ruvida delicatezza. E il disco mi prende alla gola, e sorprende, e riempie di entusiasmo: quello che non è cambiato in Filippo è sicuramente il suo essere poeta e la sua abilità di squarciare il cielo e lasciarti col fiato sospeso con una frase. 

domenica 6 novembre 2011

Casa Presei Libere



A due passi dallo stadionul Arcul de Triumf si erge la Casa Presei Libere, il palazzo della stampa libera, posto nell'omonima piazza, all'angolo con Bulevardul Poligrafiei. Il palazzo, illuminato dalle insegne al neon del Jurnalul Național, di Agerpres, di Adevărul e di molte altre testate, è la sede di diversi quotidiani e agenzie di stampa. Sono andato a vederlo da fuori dopo averlo visto con la coda dell'occhio dallo stadio del rugby. Mi ero ripromesso che ci sarei andato, fin da quando ci son sfrecciato vicino in auto per andare all'aeroporto Băneasa.



Ci sono arrivato che il sole ormai stava tramontando. Il cielo cupo di nuvole cariche, l'odore di zolfo che c'era nell'aria, il desolato parcheggio che fronteggia il palazzo, uno stormo di corvi: tutto sembrava voler contribuire a dare all'imponenza del palazzo una nota inquieta. Forse anche per l'ironica storia della Casa Presei Libere, complesso poligrafico (combinatul poligrafic) costruito tra il 1952 e il 1956 nello stile del realismo socialista sovietico - sul modello architettonico dell'Università di Stato di Mosca - e originariamente dedicato a Iosif Stalin. L'ironia è soprattutto nel nome attuale, Casa Presei Libere, per due motivi. Il primo è che il palazzo, prima conosciuto anche come Casa Scînteii, fino al 1989 è stato la sede di Scînteia, il quotidiano del Partidul Comunist Român. Praticamente l'equivalente per la Romania di quanto erano la Pravda per l'URSS e Rude Pravo per la Cecoslovacchia. L'altro motivo è che il palazzo è probabilmente l'unico, in tutta Bucarest, a portare ancora ben in vista il simbolo con la falce e il martello (secera și ciocanul). Nel desolante vuoto del parcheggio di fronte c'è anche un piedistallo vuoto, dove prima si ergeva la statua di Vladimir Lenin, abbattuta il 3 marzo 1990 dopo che per trent'anni aveva sorvegliato la piazza.


Un picior pe terenul



Quando mi sono allenato con i Dracula Old Boys, metà del campo era occupato dagli allenamenti della nazionale georgiana under 19. A Bucarest, infatti, si sono tenuti i Campionati Europei under 19 di rugby, oltre alle qualificazioni per gli Europei under 18. Ovviamente, quando si parla di Europei e rugby, bisogna contare sull'assenza delle sei squadre più forti: Francia, Inghilterra, Irlanda, Galles, Scozia e Italia. E quindi il baricentro si sposta verso est, verso Romania, Georgia, Russia, Ucraina, ma anche verso altre periferie come la penisola iberica, il Benelux, Germania e Svizzera. Così ho deciso di prendere la metro fino ad Aviatorilor e dirigermi allo stadio Arcul de Triumf, dov'ero già stato per il derby ovale di Bucarest, per godermi la giornata finale del torneo.

La giornata è passata tra delle belle partite (ho assistito a Spagna - Portogallo per il quinto posto, Romania - Olanda per il terzo e Georgia - Russia per il titolo), le chiacchere con due commissioner FIRA italiani e con l'addetto stampa della FRR (che pensavo si chiamasse Laurențiu e invece è Lucian), le presentazioni con l'ex nazionale, ora addetto federale allo sviluppo Hari Dumitraș, due mici e una coca, un sacco di foto fatte e, soprattutto, la consegna di un mio vecchio articolo sulla storia del rugby sovietico ed ex sovietico e sui rapporti ovali tra Russia e Georgia a due responsabili delle federazioni interessate. Bellissimo il pensiero del russo con cui ho parlato: ha messo nel suo zaino lo stampato e ne ha estratto una spilla con il simbolo della federazione rugby russa, porgendomela come (graditissimo) regalo.

E poi mi son tolto la soddisfazione di metter piede all'Arcul de Triumf, insomma!



Qua si trova l'album Flickr della giornata.

giovedì 27 ottobre 2011

Am jocat la rugby și am băut țuică!



Aria fredda, una maglietta di cotonaccio sbrindellata e con i colori dello Zimbabwe, una palla ovale che vola in cielo, i pali ad H del Parcul Copilului e una voglia di correre incredibile. Per la prima volta ho giocato a rugby sotto il cielo di Bucarest. Non era la prima volta che imbracciavo un ovale in terra straniera, anche se ammetto che giudicare il Canton Ticino estero non è veramente sensato. Alla ricerca di una squadra con cui allenarmi, capito sul sito dei Dracula Old Boys. “Ci alleniamo di martedì e giovedì alle 17”. Ma cazzo, io ho lezione. Finché arriva la notizia che la lezione di giovedì sera è saltata. E allora torno a casa, guardo la cartina, butto due cose in borsa e prendo la metro in direzione Grivița.

Scendo, chiedo indicazioni, faccio il giro del campo e vedo finalmente le H che svettano e, che bello, anche l’ingresso del Parcul Copilului è fatto ad H! Entro, mi guardo in giro disorientato, guardo con fare interrogativo un vecchietto e lui mi fa: “Căutați Dan?”. “Da”, gli rispondo, e lui mi conduce negli spogliatoi. Comincio a cambiarmi, nessuno parla inglese, ma riesco a dire qualche parola. “Ești italian? Am fost la Rovigo la 2005!” “Ce posițiă? Linia a-doua? Linia a-treia?”. Mi accolgono con molta gentilezza e mi cambio, finché uno di loro entra in spogliatoio con un basco stile militare e una bottiglia in mano. Non ci posso credere: avevo bevuto la palincă, ma lei ancora non l’avevo mai incontrata. È țuică fatta in casa, acquavite di prugne. E qualcuno tira una boccata persino prima di allenarsi.

In campo mi ricordo quanto è bello prendere la biglia – come la chiamava il mio primo allenatore – in mano e correre. Giochiamo al tocco (che qualcuno di mia conoscenza definirebbe “robba da…”, ma che è pur sempre meglio di niente), mentre sull’altra metà campo si allena la nazionale georgiana under 18, e riscopro il piacere e la fatica, a fine allenamento sono distrutto e un po’ imbarazzato per la mia forma penosa. Sono però contentissimo, mi mancava tanto e non me ne accorgevo nemmeno. In doccia mi tiro su sorseggiando anch’io finalmente un po’ di țuică, poi mi rendo conto che ogni spogliatoio di rugby è la stessa manica di cazzoni quando uno dei ragazzi si gira verso di me e mi chiede: “Cum se spune în italiană clitoris?”.

Dan mi porta a casa, mi racconta che lui abita a 75 km da Bucarest, ma si allena comunque due volte a settimana. Parliamo romanește e scopro con soddisfazione di riuscire a esprimermi, che in fondo mi basterebbe poterlo utilizzare così ogni giorno per impararlo bene. L’ultimo mezzo chilometro da Obor – dove mi lascia Dan – a casa lo faccio a piedi, esausto e felice, con una tosse bronchitica e dolori vari e la piccola borsa sportiva appesa alla spalla.

martedì 25 ottobre 2011

Nu sunt țigan!

Sono stato censito in Romania, come residente temporaneo. A suo modo, è stata anche questa un'esperienza. A lasciarmi attonito è stata una domanda: "ethnicity", l'etnia. Io che manco ci ho mai pensato alla mia etnia, non ho nemmeno mai dato peso a cosa significasse. E si che tra i miei interessi c'è anche il nazionalismo. Non so effettivamente qui come sia sentito, tra irredentismi (la Bessarabia, ovvero Moldova: il governo romeno negli anni '90 garantiva il passaporto anche ai moldavi), minoranze con cui il rapporto non è sempre florido (gli ungheresi della transilvania e gli zingari) e partiti nazionalisti che negli anni passati avevano avuto un certo successo (il Partidul România Mare di Corneliu Vadim Tudor). 

La davo talmente per scontata, quella domanda, che ci ho dovuto pensare su un attimo prima di rispondere "italiano". Qua, invece, non sembra così scontato, visto che ho scoperto di una campagna che come oggetto aveva proprio la risposta a quel punto del questionario. Gli țigani, gli zingari, non sempre sono censiti e non sempre dichiarano di essere zingari, per paura di ripercussioni. L'obbiettivo della campagna era proprio spronare gli zingari a dichiarare la propria etnia nel censimento, per fare in modo che le statistiche fossero veritiere e non sottostimassero la reale entità della comunità zingara. Non è un popolo che va molto a genio ai romeni: più volte sono stato fermato per strada da qualcuno e, quando storcevo il viso perché faticavo a comprendere il romeno, il mio interlocutore per rassicurarmi mi diceva "Nu sunt țigan, nu sunt țigan!". Anche all'allenamento di rugby, parlando con uno dei ragazzi, venne fuori l'argomento. Mi raccontò di quando andarono a un torneo a Rovigo e, visto che le loro auto avevano targhe romene, si trovarono le ruote tagliate nel parcheggio fuori dallo stadio Battaglini. Quando ho provato a dirgli che in Italia c'è parecchio pregiudizio verso i romeni, la risposta è stata: "Noi siamo tranquilli, non siamo come gli țigani. Loro sono un problema".

domenica 16 ottobre 2011

Cu ochii deschişi în noaptea tristă

Ieri, mentre a Roma succedeva quel che succedeva, io ero in Piața Revoluției con Silvia. Le raccontavo la storia della rivoluzione romena, le mostravo la galleria d’arte e la biblioteca universitaria che il 21 dicembre 1989 erano in fiamme, le raccontavo il momento in cui i cannoni dei carrarmati dell’esercito si girarono verso il palazzo del Comitato Centrale del Partito Comunista Romeno, le indicavo la bandiera romena nel punto da cui Ceaușescu fuggì in elicottero, le narravo il suo destino e la fucilazione, le mostravo i nomi dei morti durante la rivoluzione e le spiegavo i tratti controversi di una rivoluzione che ancora non è ben chiara agli occhi dei romeni e del resto del mondo. Rivoluzione, colpo di stato, trasformismo del Partito per sopravvivere al malcontento espresso dai cittadini di Timișoara, di Bucarest e del resto della Romania?

La sera abbiamo cenato con un ragazzo pescarese e ci siamo messi a discutere di politica. Del nostro paese e delle sensazioni che ci da. Di nucleare, di Orwell e Huxley, del terremoto de L’Aquila, del voto di fiducia. Li avevo già immaginati fin dal giorno prima, ma parlando con Beppe ho saputo che c’erano stati casini a Roma. Cos’è successo l’ho visto solo stamattina, di ritorno dall’aeroporto. Sono tornato a letto con un senso di amarezza in bocca e ho ripensato a una frase detta da Beppe, dopo che il suo amico Carlo ci aveva detto: “Non parliamo di politica”. La risposta è stata: “Perché no?”. Perché io e Beppe, con vissuti, esperienze e posizioni diverse, eravamo nella mia cucina bucarestina a confrontarci. Disposti ad ascoltarci, a non dire all’altro che la sua opinione è stupida o indegna. Sapevamo perché la pensavamo in un modo, ma ascoltavamo con interesse e rispetto anche le ragioni dell’altro. I fatti erano fatti, le opinioni opinioni. E Beppe ha detto: “Io questa discussione in Italia non l’avrei mai fatta, e c’è un motivo quindi se in questo momento ci troviamo tutti e due, qui, in questa cucina di Bucarest”. Avevo la pelle d’oca, i brividi, e volevo quasi mettermi a piangere.

Forse, come dice Beppe, è un fattore antropologico: noi italiani siamo così, punto. Ed è inutile che ci lamentiamo, perché siamo così, lo siamo da tempo e sempre saremo così. Egoisti, prevaricatori, opportunisti, in fuga dalla responsabilità. A vedere le immagini di Roma, a leggere le cronache e i soliti, scontati, commenti mi viene da dargli ragione. È un giorno triste, pensare che Roma, una delle città più belle del mondo, forse quella con più storia, quella dove stamattina è tornata Silvia, sia stata brutalizzata dalla violenza di un modo di manifestare che non è ricerca di dialogo, ma prevaricazione. Non ho niente contro chi ci è andato con idee genuine e si è trovato suo malgrado in questo casino.

Penso purtroppo però che questi siano meno di quelli che ci vogliano far credere e che molti – nell’organizzazione che è, per definizione, responsabile – abbiano lasciato fare e poi condannato perché volevano fare casino, ma non volevano esserne ritenuti responsabili. Sono stufo di sentire il solito ritornello dei pochi facinorosi, da dieci anni a questa parte. Per un po’ vi ho creduto, ora sono convinto che vi nascondiate dietro un dito o che, peggio, lo facciate per dare la colpa alla polizia. “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”. Non siete la migliore Italia, non siete quello che vi dipingete e che volete convincerci siate. La migliore Italia ieri discuteva al tavolo di una cucina di Bucarest e provava a immaginarsi nella testa un paese migliore, la migliore Italia ieri guardava gli scontri e si poneva domande da un appartamento di Tokyo, la migliore Italia che ieri era a Roma è quella che si è dissociata subito e nei fatti da quanto è successo.

Mi piange il cuore per gli innocenti. Quelli che provano a fare il loro lavoro con serietà e professionalità per trovarsi magari stamattina il negozio saccheggiato. Quelli che sentono dentro la voglia di cambiare il mondo e che credevano veramente che questa sarebbe stata una manifestazione pacifica e utile. Sono degli illusi - a mio parere - e non sto con loro per diversi motivi, ma mi piange il cuore lo stesso per come si dovranno sentire oggi. Quelli che, stando alle cronache, hanno provato a isolare i facinorosi, hanno fatto qualcosa di materiale per dissociarsi e magari si son pure presi le botte. Quelli che, in divisa, hanno cercato di fare il loro meglio per fare in modo che la situazione non degenerasse. Sono quelli che, stamattina, mentre immergevano il cornetto nel cappuccino e baciavano la moglie prima di andare a lavoro, sapevano già che si sarebbero sentiti insultare e dare dei fascisti, che avrebbero dovuto affrontare una giornata dura e che avrebbero dovuto mantenere i nervi saldi per evitare che succedesse qualcosa di male. Quelli che vorrebbero vedere un’Italia diversa e hanno messo le cose in valigia e se ne sono andati con la rabbia dentro (“A chi è andato a vivere a Londra, a Berlino, a Parigi, a Milano o Bologna; ma le paure non han fissa dimora, le vostre svolte son sogni di gloria”), e magari oggi si sentono come mi sto sentendo io a Bucarest, portando sul cuore il fardello di un paese tanto bello quanto ingrato, ottuso e crudele. Quelli che rigettano la violenza, che rigettano la sciatteria, che rigettano certi modi di fare, che rigettano questo mondo di porte chiuse, che provano a creare qualcosa di buono e si trovano sempre umiliati, inginocchiati a piangere di rabbia.

sabato 8 ottobre 2011

Stadionul Naţional şi Arcul de Triumf



Dopo aver lasciato l'aeroporto di Băneasa, la prima cosa che ho visto di Bucarest è stata l'Arcul de Triumf. Mi aveva lasciato a bocca aperta e con un enorme sorriso dentro, mentre il taxi ci passava intorno. Quello è il posto che da anni conoscevo di Bucarest, fin da quando, giornalista di rugby minore e di nazionali misconosciute o decadute, narravo su un blog di informazione le gesta della nazionale romena in quello che è il suo stadio principale, appunto lo Stadionul Arcul de Triumf. Interi pomeriggi a cercare di cogliere il senso da articoli in romeno, e questo prima di accingermi a imparare la limbă e ben prima di immaginare che, un giorno, sarei approdato nella capitale romena. E non come turista, ma per viverci.



Il mio lavoro presuppone che uno dei modi migliori per conoscere un paese, per capire un posto, sia attraverso ventidue uomini in mutande che inseguono un pallone. Mi spaccio per giornalista sportivo e, in mente, ho progetti ambiziosi che vedono lo sport non solo come i succitati uomini in mutande, ma come la chiave di lettura di posti, modi di sentire, ideologie e avvenimenti di tutto il mondo. Gli esempi sono mille e, personalmente, lo sport mi ha permesso di parlare di vicende storiche e politiche dei paesi e dei tempi più disparati: Irlanda del Nord (da dove ho cominciato, mettendo la prima bandierina), Ungheria, Unione Sovietica, Russia, Georgia, Francia, Jugoslavia, Croazia e Serbia, Iran, Egitto, Sudan del Sud, Libia, Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan, Seychelles, Ucraina e - forse inevitabilmente - Romania. Quei palloni che catalizzano passioni, che identificano popoli interi, sono ormai da tempo la mia chiave di lettura preferita per comprendere il mondo. E per cercare, in qualche modo, di raccontarlo a modo mio.



Per questo, forse, una delle prime cose a cui ho pensato quando sono atterrato a Bucarest è stata quella di andare allo stadio. Questo weekend sono riuscito a farlo ben due volte dopo aver visto, solamente da fuori, lo stadio della Dinamo sulla Şoseaua Ştefan cel Mare. Venerdì, grazie a Emanuel, un giornalista sportivo di qui, ho potuto aprire la bocca stupito dalla magnificenza del nuovo Stadionul Naţional, in occasione della partita tra Romania - Bielorussia. E benché i tre gol fatti dai bosniaci al Lussemburgo prima del calcio d'inizio (sarebbero diventati cinque) eliminavano di fatto la Romania dalla corsa ai mondiali, e nonostante il risultato sia stato un deludente (per i romeni) 2-2, mi sono goduto una nazionale di calcio che cercava di dimostrare qualcosa, mi son goduto il ritorno di Adrian Mutu dopo l'allontanamento dalla nazionale e la doppietta con cui si è redento di fronte al proprio pubblico, oltre al primo gol segnato dalla nazionale romena nel nuovo stadio (la partita inaugurale, contro la Francia, era terminata 0-0). Settimana prossima tornerò, stavolta per vedere il Manchester United, una delle mie squadre preferite. Come souvenir, oltre al biglietto dell'incontro, ho anche guadagnato la mia prima bandiera romena, che ora sventola fiera sopra i miei libri nella mia stanza.



Il giorno dopo, sfidando incoscientemente l'improvviso calo di temperatura di Bucarest, mi sono diretto in metropolitana verso l'Arcul de Triumf e, dopo aver girato l'angolo dove c'è il Muzeul Sportului gestito dal comitato olimpico romeno, ho finalmente varcato i cancelli dello Stadionul Arcul de Triumf per assistere alla versione rugbistica dell'eternul derby, il derby eterno tra la Dinamo e lo Steaua, le principali polisportive di Bucarest, un tempo gestite rispettivamente dal Ministero degli Interni e dall'Esercito. Nonostante il freddo che entrava sotto la maglietta, mi sono emozionato ad assistere finalmente a una partita di rugby in Romania, con il pubblico che sgusciava e sputava semi di girasole, con i cori dei tifosi dinamovisti e con le timide risposte dei loro rivali stelisti. Alla fine ha vinto lo Steaua 14-6, mantenendo il secondo posto in classifica e preparandosi ai play-off. Ho qualche contatto importante in mano, ho voglia di capire, di fare e di riprendere a lavorare. Mergem!

Qui trovate le foto fatte a Romania - Bielorussia 2-2 allo Stadionul Naţional, qui invece quelle fatte il giorno dopo a Dinamo Bucureşti - Steaua Bucureşti 6-14 allo Stadionul Arcul de Triumf.

venerdì 7 ottobre 2011

Viitorul unei naţiuni

“Where do you want to go?”
“I want to go to Bucharest, in Romania”
“Why Bucharest?”
“Well, you see…(segue lunga spiegazione dei motivi che mi hanno portato a fare questa scelta)”
“I see. I really hope you’ll get to go, I really hope everyone of you gets to go, actually. Italy, and the Italian University, are in a really bad state and, if you have a chance, I think you should all go. So, I’m doing a little something to get you there”

(dialogo tra me e un professore di inglese dell’Università Statale di Milano durante il colloquio linguistico Erasmus, mentre firmava un “Excellent”)


Ho iniziato le lezioni all’Universitatea din Bucureşti. Il programma, oltre a un corso di romeno, comprende alcuni corsi dalla laurea specialistica in Comparative Politics e un paio dalla triennale in Scienze Politiche in inglese. Transizioni democratiche, politica dell’Europa centro-orientale, nazionalismo e cittadinanza, comunicazione politica e organizzazioni internazionali. Più un corso in romeno che frequenterò più per curiosità e perché penso possa aiutarmi a imparare un po’ la lingua: Dictaturi comuniste şi reprezentări cinematografice.

La prima lezione è stata una specie di bomba lanciata nella stanza per i poveri sventurati studenti italiani: niente lezioni frontali, tanto dibattito (a cui è anche legata parte del voto), una presentazione da fare di fronte alla classe su uno dei testi su cui si lavorerà – facendo attenzione anche alle modalità di esposizione oltre che ai contenuti – e un research paper di venti pagine su un argomento a scelta inerente le tematiche del corso, meglio se corredato da ricerca originale. Tutte cose mai fatte in Italia, come ci siamo trovati ad ammettere alla docente che, con cortesia, ha cercato di spiegarci i principali requisiti del paper. La seconda lezione? Anche qui nessun esame, un corso fatto di interventi di diversi professori – uno diverso a lezione – con diversi punti di vista sulla politica dell’Europa centro-orientale: antropologici, politologici, religiosi, transizionalistici. Anche qui un paper da fare su un argomento a scelta. Per gli altri corsi la solfa continua a ripetersi e, per il povero sprovveduto italiano pasta pizza mandolino mamma, comincia a salire l’ansia e la depressione.

I romeni sembrano fare a gara per dire che la Romania è una backward country (come d’altronde facciamo anche noi con l’Italia). Eppure com’è possibile che ci abbiano lasciato al palo anche loro? Han lasciato al palo noi, con la nostra cultura, con il nostro orgoglio sui grandi nomi italiani che hanno fatto la storia, l’arte, la musica, la letteratura, la scienza. Ora, io non so se sono capitato proprio male all’Università degli Studi. So solo che altri studenti italiani si trovano spaesati e disorientati come me e che l’impressione che continua a confermarsi è che lo stivale si stia trasformando in una deadly swamp, una palude mortale. Ho letto diversi articoli a riguardo, quello che mi aveva più colpito ammoniva chi scaricava tutte le colpe sui governi e sulle riforme Moratti e Gelmini. E diceva che l’Università la fanno anche, e soprattutto, studenti e professori.

Io, quando mi sono iscritto all’Università di nuovo dopo una laurea inutile, mi son depresso parecchio. Cosa ci facevo io a 26 anni, con una laurea e con tante belle idee in testa, in mezzo a uno sciame di ragazzetti schiamazzanti e maleducati, incapaci di non comportarsi come porci a lezione e irrispettosi per il diritto dei loro compagni di ascoltare e far tesoro della lezione? Mi sentivo impotente, avrei voluto mettermi a gridare quando il professore di storia, scorato, terminava in anticipo una lezione che io ascoltavo pendendogli dalle labbra perché il brusio e il disinteresse generale era troppo palese anche per lui. E mi irritavo, al corso di lingua inglese e comunicazione, a dover partecipare a delle lezioni da elementari in cui si ripetevano in continuazione le parole chiave e in cui mi veniva voglia di correggere certe traduzioni della professoressa (all’esame mi diede trenta, mi disse “Le è piaciuto questo corso? Mi dica la verità, io penso fosse troppo facile per lei). Mi sono trovato meglio quando ho cominciato a frequentare solo quello che veramente mi interessava (geopolitica, studi strategici, politica dell’UE) e a dare da non frequentante il resto. E quando ho dato l’esame del professore della mia tesi, cominciato con l’epica domanda “Allora, come lo salviamo quest’Euro?”, mi ha dato forte soddisfazione sentirmi dire che apprezzava la volontà di spaziare, di creare collegamenti e di non fermarsi solo al libro di testo. “Ma tanto – disse il professore – storia dell’integrazione europea tra qualche anno non si studierà più, o si studierà solo come si studia la storia dei greci e dei romani”.

Rassegnazione, penso che per molti professori la sensazione sia quella, o almeno è quello che trasmettono. Però penso debba partire da loro e dagli studenti un moto di orgoglio, una consapevolezza che quello è un luogo di crescita e non di bivacco, un coraggio di rischiare e proporre novità e nuovi modi di coinvolgere, apprendere e fare apprendere. Di fronte alla porta dell’ufficio Erasmus alla Facultatea de Drept c’è una citazione di Erasmo da Rotterdam e, a ragionarci sopra, viene da mettersi le mani tra i capelli e disperarsi:

“The main hope of a nation lies in the proper education of its youth”
(Viitorul unei naţiuni este hotărât de modul în care aceasta îşi pregăteşte tineretul)

martedì 4 ottobre 2011

Mai mulţ


Oggi ho camminato parecchio per Bucarest. Ho scoperto degli angoli veramente mozzafiato in Strada Mihai Eminescu e in Piaţa Pache Protopopescu, ho visto le ambasciate di India e Grecia e una via con un nome splendido, Strada Viitorului, via del Futuro. Ho camminato per le vie un po’ dimesse vicino a Parcul Cişmigiu. Ho girovagato per Lipscani e Strada Franceză e mangiato in un restaurant libanez. Ho percorso la Calea Victoriei dal centro vecchio fino a Piaţa Revoluţiei. Ho rivisto la fontana, per l'occasione tinta di rosso, nella bella Piaţa 21 Decembrie 1989. Mi sono goduto un’altra volta la passeggiata notturna per tornare da Piaţa Universitaţii a casa mia, fermandomi in almeno due momenti ammirato da qualche angolo particolare e sorridendo tra me e me per i florarie non-stop, uno a ogni angolo del semaforo vicino a casa nostra. Oggi camminavo per la Calea Moşilor, il sole negli occhi, l’odore delle varie patiserie, gogoserie, covrigarie nell’aria, la musica nelle orecchie (Olenka degli Ukrainians e I Only Want You degli Eagles of Death Metal) e ho cominciato a cercare di fare un bilancio del mio primo mese in Romania, delle cose più belle e più brutte della città in cui vivo. Non sono riuscito a stilarle così, mentalmente, quindi ci riprovo ora, a metterle per iscritto, sotto forma di “le cinque cose più” (a noi Nick Hornby ci ha rovinato).


Le cinque cose più brutte
  1. Il tizio che si masturba e piscia per terra sulle scale del nostro palazzo, cercheremo di contattare l’amministratore e vedere se può fare qualcosa.
  2. Un certo senso di negligenza e dimissione generale, con la sporcizia, i cani (che in realtà ormai non mi fanno più effetto).
  3. L’impressione che si siano fatte cose ultramoderne senza prima pensare ad alcune cose fondamentali prima, come si vede in metropolitana, sui mezzi pubblici, in diversi palazzi e in tante strade. E anche al Parcul Tineretului: vulcani di vapore, rapide, attrezzi di fitness simil-gioco per bambini a disposizione, fiere, ruote panoramiche e campi sportivi a profusione. Nemmeno una fontanella per bere, e mezzo parco al buio per un black-out.
  4. L’impressione di diffidenza e freddezza di molta gente. Magari però dovuta al fatto di conoscere pochi romeni: i pochi conosciuti finora invece mi hanno fatto una gran bella impressione, ma all’impatto con gli sconosciuti si avverte un senso di ruvidezza quasi eccessivo.
  5. Alcuni episodi da amaro in bocca: il bambino che durante il concerto degli Zdob şi Zdub raccoglieva da terra bottiglie e lattine vuote in mezzo al pubblico, i bambini che chiedono l’elemosina anche di sera, il tizio che ha cercato di venderci un rolex per strada in pieno giorno, la signora che mentre entravo in metropolitana mi si è appiccicata al culo per non pagare il biglietto, i taxisti che cercano di farti fesso.
Le cinque cose più belle
  1. Il mio appartamento e la sensazione di avere una casa “mia”. La mia stanza, il soggiorno (dove spendo tantissimo tempo), la cucina, le cose da cucinare, le cose da riordinare, la spesa da fare, i piatti da pulire, i coinquilini, il caffè, lo sferragliare tintinnante del tram nella strada, le mie chiavi, il divano di cui ho ormai preso possesso, la voglia di tutti noi di renderlo veramente nostro, in diversi modi. E la sensazione che, nonostante la convivenza richieda sempre compromessi, finora tutti si sentano a casa.
  2. La facilità con cui spunta qualcosa di meraviglioso anche in mezzo alle vie più squallide, un palazzo, un parchetto, una fontana, una via non deturpata dai palazzoni stile Ceauşescu, un angolo suggestivo, una biserica ortodossa o armena, una statua o un busto di qualcuno, un negozio o una bancarella interessante.
  3. Le vie di Bucarest e le cose che rendono una via di Bucarest una via di Bucarest: i cani (si, anche quelli, ormai ci sono abituato), le bancarelle di libri onnipresenti in zona Universitate, le patiserie/gogoserie/covrigarie che ti servono alla finestra e che spandono odori fragranti nell’aria, i florarie non-stop, i cavi del tram e dei troleibuz sospesi per aria di fronte alla lua, i palazzi illuminati di notte, l’atmosfera bellissima della città di notte.
  4. L’impressione che il centro del mondo sia stato traslato di duemila chilometri a est, di vivere in un mondo parallelo dove le istruzioni sono (forse) in inglese, poi in romeno, sloveno, serbo, polacco, ungherese, russo, macedone, albanese, greco, turco, ucraino e solo poi magari francese. In un paese che non è bagnato dal mar Mediterraneo ma dal mar Nero, che non confina con il calduccio europeo di Francia, Austria e Svizzera, ma con posti “esotici” come Bulgaria, Serbia, Ungheria, Moldova e Ucraina. La necessità di imparare una nuova lingua, anche se c’è la frustrazione di non riuscire a esprimersi come si vorrebbe. Le vecchie Dacia azzurre o gialle. La storia e l'iconografia di un periodo che noi sentiamo ormai così lontano come quello comunista ancora ben presenti, a darci una lezione di storia, di attualità e di com'è il mondo dove viviamo al di là del nostro naso.
  5. La voglia che ho di rimettermi in gioco, di incontrare persone, di lavorare, di mettermi alla prova, di viaggiare, di scrivere, di trovare storie da raccontare, di sfruttare il più possibile il mio soggiorno qui e il fatto di essere in un posto nuovo, non scontato, non conosciuto.


Oggi all’incrocio tra il Bulevardul Carol I e la Calea Moşilor la luna splendeva in cima a un palazzo, schermata dai cavi del tram numero 21. Come si fa a non innamorarsi di questa città, per contraddittoria che sia?

domenica 25 settembre 2011

Prietenii mei

Qualche giorno in Italia, per rivedere Silvia e recuperare qualche bagaglio pesante e qualche oggetto per la casa (caffettiera, caffè, spezie, cus cus, pizzoccheri, formaggio decente, tè verde e una fila di cacciatorini) e, tra le altre cose, per salutare una “vecchia amica” in partenza per l’altra parte del mondo. Persi nella Brianza tra ricordi dell’Università e chiacchere, con persone che hanno girato il mondo o che hanno l’aspirazione o la voglia di farlo. La voglia, forse, anche di lasciarsi alle spalle un suolo ingrato e sempre più arido. Mentre eravamo seduti su una panca da festa di paese, è uscita fuori una frase: “Non c’è nulla come partire per farti capire su chi puoi contare”. Tre persone che chiacchieravano e ognuna aveva le sue storie di delusioni o, anche, di piacevoli sorprese: una persona reduce da tre mesi in Madagascar, una domiciliata a Bucarest e una che scalda i motori per emigrare ad Auckland. Fare due chiacchere su questi argomenti mi ha fatto pensare molto ai miei comportamenti e a quelli di altre persone, ma soprattutto mi ha reso felice di essere andato a salutare una persona che non vedevo da tempo e che sentivo raramente, ma con cui ho condiviso parte della mia vita universitaria. Drum bun spre Noua Zeelandă, şi noroc!

Il mattino precedente ero stato svegliato da una chiamata. Una persona che chiamavo fratello e che, proprio due sere prima della mia partenza, mi aveva riservato l’ultima di tante delusioni. Di quelle che ti fanno soppesare le persone e l’importanza che gli dai, che ti fanno raffreddare i rapporti e che ti fanno dire: “Beh, se ha voglia, mi cercherà lui”. Penso agli amici che avrei voluto salutare, ma alla fine non sono riuscito a vedere; penso a quelli che colpevolmente ho dimenticato nella fretta (e vorrei tanto chiedergli scusa), a quelli che sono riusciti a farmi sentire che erano contenti che avessi trovato un attimo per salutarli e quelli che, invece, hanno trovato il modo di rompere qualcosa proprio prima della partenza e poi si comportano come se nulla fosse. Parlando con Quentin e raccontandogli l’episodio incriminato, aveva detto anche lui che le partenze ti fanno capire parecchio sulle persone che ti stanno intorno. Ora resta da capire se è il caso di far notare certi comportamenti ai diretti interessati o sperare che capiscano da soli il significato di quel che hanno fatto. E soprattutto chiedere scusa a quelli che, per tempo o confusione, sono stati trascurati.

giovedì 22 settembre 2011

...şi am băut gin!



Giorni sballottati, tra l'esame di lingua romena, l'insediamento nel nuovo appartamento, una camminata per Bucarest con uno stendino sottobraccio, concerti, cene e camminate notturne per la città - che comincia a diventare sempre più mia - e il volo di ritorno a casa. Culo sul divano, voglia di stare a casa e vedere un film, un po' di rammarico perché "quando mi ricapita di vedere gli Zdob şi Zdub?" e, improvvisamente, la decisione di alzarci tutti e tre, acchiappare la metro a Obor e dirigerci in centro per il concerto. Così, seguendo ispirazioni improvvise, come forse bisognerebbe fare un po' di più, facendosi meno problemi. Perdersi nel labirinto di Lipscani fino a sbucare in Strada Franceză, a bocca aperta vedendo i sampietrini schierati a mo' di barricata, il selciato ancora da fare, una strada stranamente e magicamente silenziosa nel centro, nessun locale e una chiesa illuminata. E sbucare poi dove risuonano le note di Ţigani şi OZN-ul ("Zingari e UFO")da un palco posto all'incrocio tra due vie, con un edificio dietro alla band e il pubblico a destra, sinistra e in mezzo. Lampi belli e meno belli, come il tizio con una bambola in spalla e una bandiera europea o come il bambino che, nel mezzo della calca, raccoglieva bottiglie di plastica e lattine. Però una location bellissima e particolare per un bel concerto che mi ha visto, alla fine, lasciarmi andare a saltare e urlare come non mi capitava da un sacco di tempo, abbracciato a Quentin sulle note di Bună Dimineaţa e Everybody in the Casa Mare. Finito l'ultimo pezzo la piazza si svuota, prendiamo Calea Victoriei, svoltiamo a destra e torniamo verso casa in una Bucarest semi-dormiente. I fiorai aperti, la Biserica Armenească illuminata e sempre più bella, i cani a zonzo e noi tre che respiriamo la città camminando nella notte.

Due sere dopo la stessa strada l'ho ripercorsa, con l'unica compagnia di Silvia al telefono, a cui raccontavo quello che c'era intorno, le stranezze, le cose che mi colpiscono e piacciono e affascinano di questa città. Ho portato Silvia a spasso con me, nel ritorno a piedi da Lipscani a casa, raccontandole la città, cercando di ricreare Bucarest nella sua immaginazione e sentendola vicina, quasi camminasse stretta al mio braccio destro. Raccontandole di chiese spostate per sfuggire a Ceauşescu, di cani che attraversano la strada solo sulle strisce e quando non passano le macchine, leggendole le scritte, promettendole un fiore preso all'una di notte da un florarie non-stop e uno strudel cu brânză preso a due lei dalla finestra di un negozio. Raccontandole la bellezza della chiesa armena, la voglia di fare una passeggiata nel quartiere armeno, i binari del tram che sferraglia e tintinna sotto la finestra del nostro soggiorno, raccontandole il vicoletto stretto per cui si arriva al nostro portone e le mille banche di Calea Moşilor, già soprannominata Little Switzerland.


Ho le chiavi del palazzo, ho una camera con le mie cose, la mia scrivania, il mio letto e i miei vestiti. Ho una cucina dove ho preparato una pasta al sugo con prosciutto di Praga e salame d'orso, ho un boccione dell'acqua da cinque litri nel frigo e un cartone di succo. Ho una cucina che pian piano ha preso la forma che gli abbiamo voluto dare. Ho un supermercato sotto casa dove ho già fatto la spesa un paio di volte, e una strada che ormai ho già percorso a piedi in una mezza dozzina di occasioni. Ho un diploma che dice che so un pochino di romeno e riesco a fare anche qualche conversazione senza dover ricorrere ad altre lingue. Ho un router internet che al momento non funziona e ho chiamato il servizio clienti, e attendo i tecnici. Ho un telefono che ogni tanto squilla, e qualcuno che chiede dell'algerino che prima viveva qui ("Domnul Habib nu locuieşte aici. Nu, nu cunosc domnul Habib. Nu, nu ştiu numărul său, îmi pare rău"). Ho fatto leggere il contatore della luce e fatto due lavatrici, ho steso e mi sono addormentato già due volte sul divano. Ho ascoltato la radio romena e qualche volta ci ho anche capito qualcosa. Ho una voglia matta di comprare qualche libro dalle bancarelle in Piaţa Universitaţii. Saprei guidare da casa mia all'aeroporto, ho visto lo stadio della Dinamo e quello della nazionale di rugby. Ho imparato a camminare in strade infestate di cani senza andare nel panico, e comincio a comprendere la metropolitana di Bucarest. Ho un portafoglio con un abbonamento RATB e soldi solamente in lei. Ho mandato un curriculum a un giornale che ha la redazione a 500 metri da casa mia. Ho preso un aereo al piccolissimo Aurel Vlaicu - Băneasa e ho preferito chiedere "Este aici pentru zborul spre Bergamo, vă rog?" a un pope ortodosso che domandare agli italiani che sentivo parlare davanti ai quattro gate dell'aeroporto. E ieri, parlando con i miei in macchina, dicevo: "Da noi c'è...da noi invece non è così...da noi...". Fino a quando sono entrato in appartamento mi son sentito un turista a Bucarest, e in questo mio primo giorno dei dieci che passerò in Italia, mi sento in vacanza. Forse ora mi rendo conto che, adesso, in quella città ci sto vivendo - anche se a scadenza e con una padronanza rudimentale della lingua. Eu locuiesc în Bucureşti.

sabato 17 settembre 2011

Calea Moşilor, colţ cu Strada Mihai Eminescu

Hei, noroc, oameni buni!
Everybody in the casa mare!
(Zdob şi Zdub - Everybody in the casa mare)

Addio, Pasajul Besarab. Non sei più fuori dalla mia finestra. Non vedo più il tuo bagliore bianco e azzurro, ultima luce e immagine prima di addormentarmi. Addio, stanza 507, con le tre scrivanie, una delle quali posta in mezzo alla stanza a fare da tavolo da pranzo. Addio Grozăveşti, con la tua Dâmboviţa verde e muschiosa e i suoi pescatori, con le scritte nazionaliste sugli argini, con la tua chiesetta ortodossa, la tua centrale termica e il Carrefour Orhideea a sfamarci. Con i tuoi concerti notturni di vari cani e con i boati che si sollevavano dal pub e facevano tremare la tua stanza quando veniva trasmessa una partita di calcio.


Una Renault stipata di bagagli, un mazzo di chiavi, una gita all’Ikea di Băneasa. Il nuovo appartamento da fare nostro: lenzuola, cuscini, detersivi, pentole, un frigo da riempire. Quattro birre Silva Bruna da Timişoara per brindare tutti insieme alla nostra nuova casa. E pian piano prendiamo confidenza con la nostra via, Calea Moşilor, con la metropolitana più vicina, con i supermercati e i tragitti a piedi, con certe cose stupende che sbucano, qua e là, tra bloc e palazzoni, come la stupenda Biserica Armenească che compare sulla destra nel tragitto per andare in Piaţa Universitaţii.


La prima notte ho dormito da solo nel nostro nuovo appartamento. Wacyl, Thomas e Quentin, gli altri tre ragazzi, volevano fare festa un’ultima volta al campus. Io invece volevo acclimatarmi con la casa nuova, vedermi un film sdraiato sul divano, dormire il mio primo sonno nel mio nuovo letto. In fondo, è uno dei motivi per cui sono venuto qui: dopo aver vissuto 26 anni con la mia famiglia, avevo bisogno di un’occasione per vivere, per la prima volta, per conto mio. Pensare alla mia spesa, a cucinare e lavare (e dopo le prime sfide con la maşina de spălat sembro aver capito il meccanismo), a fare i conti di quanti soldi ho speso, a fare le spese importanti per la casa. Qualcosa che ho inseguito e allo stesso tempo da cui sono un po’ scappato da quando ho fatto l’esame di maturità, qualcosa che avevo in parte già gustato, prendendo i miei ritmi con Silvia nei soggiorni più lunghi, cucinando per lei e vivendo insieme la vita quotidiana. Acasa este locul unde este inima ta.

sabato 10 settembre 2011

Pranzul de duminică


Sia benedetto Carrefour Orhideea e la semplicità con cui riesce a farci sentire "a casa".

giovedì 8 settembre 2011

Bună Dimineața! / Бунэ диминяца!


Alla ricerca di musica in romeno, penso sia già l'inno del mio soggiorno qui, anche se il gruppo è moldavo. Bună dimineaţa!

domenica 4 settembre 2011

Piaţa Revoluţiei


2 settembre 2011. Visita guidata a Piaţa Revoluţiei, dove sfocia Calea Victoriei, incorniciata dal Muzeul Naţional de Artă (in passato palazzo reale), dalla Biblioteca Centrală Universitară e dal palazzo del Comitato Centrale del Partidul Comunist Român, oggi sede del ministero dell’Interno. Uno spillone buca il cielo, circondato da un muro costellato di nomi e croci, il Memorialul Renaşterii, memoriale della rinascita. Sul vecchio palazzo del Comitato Centrale sventola una bandiera romena. Ventidue anni fa questa piazza si chiamava in un altro nome, era la Piaţa Palatului.







21 dicembre 1989. Piaţa Palatului è gremita di gente e circondata dai carri armati. Nicolae Ceauşescu ha da poco pronunciato il suo ultimo discorso dal palazzo del Comitato Centrale, accusando i rivoltosi di Timişoara di essere un gruppo di agitatori fascisti, prima di essere contestato dalla folla, al grido di Ti-mi-şoa-ra!, ed essersi riparato nel palazzo. Il Muzeul Naţional de Artă e la Biblioteca Centrală Universitară sono in fiamme, dai palazzi la Securitate spara sulla folla. Il mattino dopo Ceauşescu fugge con la moglie Elena in elicottero dal tetto del palazzo del Comitato Centrale, mentre la folla, infuriata per i tentativi di repressione, cerca di linciarlo. La fuga non dura molto: raggiunta Târgovişte il dittatore e la moglie vengono arrestati dalla polizia locale. Il 25 dicembre 1989 Nicolae e Elena Ceauşescu vengono processati per due ore da un Tribunale Militare Straordinario, prima di essere fucilati da tre paracadutisti.








Le foto in bianco e nero appartengono a Mihai E. Popa, Camelia şi Sorin Pascu, Damien Saatdjan

Glorie Eternă Eroilor şi Revoluţiei Române din Decembrie 1989: questo è il nome completo del Memorialul Renaşterii. I 1058 nomi scritti sul muro sono gli Eroi martiri ai revoluţiei din 1989, i rivoluzionari caduti in tutta Romania nella settimana della Novena del 1989, nella più violenta delle Rivoluzioni che durante quell’anno cambiarono il volto all’Europa.

venerdì 2 settembre 2011

Patru cafele


Trovare una macchinetta del caffè italiana a un leu per caffè in università può sollevare la giornata quando ci si trova in una città dove un caffè costa sei lei e fa schifo. Dio benedica Pellini Caffè.

giovedì 1 settembre 2011

Nici un ban la Bucureşti

Down and Out in Paris and London, scriveva George Orwell, uno dei miei personali idoli. Senza un soldo la Bucureşti toccherebbe scrivere a me, dopo un weekend con carta di credito bloccata e 190 lei cambiati all’aeroporto esauriti dalle prime spese per la stanza. Non che abbia sofferto la scarsità, ma poter prelevare lunedì è stato un sollievo. Cartierul Grozăveşti e il fiume Dâmboviţa, invece, si sono presentati in maniera un po’ sciatta: un fiume verdastro e sporco di alghe, una centrale termoelettrica con grosse ciminiere e poi Casa Radio, un’altra delle gigantesche costruzioni volute da Nicolae Ceauşescu, mai continuata dopo la Rivoluzione del 1989 e ora in preda a un progetto che la vorrebbe futuro centro commerciale. Per ora la sua maestosità è resa surreale dalla sua incompletezza, dai suoi piani vuoti e dall’impressione di un palazzo enorme squarciato di netto.

Una contraddizione come le mille che si vedono in giro per Bucarest, come improvvisi cambi d’umore: bar con le finestre sprangate, costruzioni maestose, case antiche e pittoresche, bloc comunisti a mattoni giallo paglierino, strade puzzolenti e lastricati splendidi come Lipscani, lavori in corso e affascinanti basiliche ortodosse, piazze dal colpo d’occhio incredibile come l’abbagliante Piaţa Universitaţii, monumenti splendidi e sottopassaggi poco invitanti. L’esempio più assurdo è forse il Grădina Botanică Dimitrie Brândză di Cotroceni, stupendo e rigoglioso parco botanico affollato da mille feste nuziali contemporaneamente e infestato dall’onnipresente visione delle ciminiere della centrale termoelettrica.

La Trimurti di Grozăveşti: la centrale termoelettrica (addobbata con luminarie natalizie), il fiume Dâmboviţa e il panorama di Casa Radio.




La chiesetta ortodossa e il Grădina Botanică Dimitrie Brândză che fanno da cornice alla centrale termoelettrica.




Sottopassaggio verso il nulla: I Guerrieri della Notte in salsa romena (Războinici Nopţii)?


Monumentul Eroilor Sanitari, opera del fiorentino Raffaello Romanelli.


La Biserica Şfantuli Nicolae, vicino a Piaţa Universitaţii, anche conosciuta come Biserica Rusă o Biserica Studenţilor, nascosta dalle gru dei lavori in corso in Bulevardul Regina Elisabeta.