giovedì 27 ottobre 2011

Am jocat la rugby și am băut țuică!



Aria fredda, una maglietta di cotonaccio sbrindellata e con i colori dello Zimbabwe, una palla ovale che vola in cielo, i pali ad H del Parcul Copilului e una voglia di correre incredibile. Per la prima volta ho giocato a rugby sotto il cielo di Bucarest. Non era la prima volta che imbracciavo un ovale in terra straniera, anche se ammetto che giudicare il Canton Ticino estero non è veramente sensato. Alla ricerca di una squadra con cui allenarmi, capito sul sito dei Dracula Old Boys. “Ci alleniamo di martedì e giovedì alle 17”. Ma cazzo, io ho lezione. Finché arriva la notizia che la lezione di giovedì sera è saltata. E allora torno a casa, guardo la cartina, butto due cose in borsa e prendo la metro in direzione Grivița.

Scendo, chiedo indicazioni, faccio il giro del campo e vedo finalmente le H che svettano e, che bello, anche l’ingresso del Parcul Copilului è fatto ad H! Entro, mi guardo in giro disorientato, guardo con fare interrogativo un vecchietto e lui mi fa: “Căutați Dan?”. “Da”, gli rispondo, e lui mi conduce negli spogliatoi. Comincio a cambiarmi, nessuno parla inglese, ma riesco a dire qualche parola. “Ești italian? Am fost la Rovigo la 2005!” “Ce posițiă? Linia a-doua? Linia a-treia?”. Mi accolgono con molta gentilezza e mi cambio, finché uno di loro entra in spogliatoio con un basco stile militare e una bottiglia in mano. Non ci posso credere: avevo bevuto la palincă, ma lei ancora non l’avevo mai incontrata. È țuică fatta in casa, acquavite di prugne. E qualcuno tira una boccata persino prima di allenarsi.

In campo mi ricordo quanto è bello prendere la biglia – come la chiamava il mio primo allenatore – in mano e correre. Giochiamo al tocco (che qualcuno di mia conoscenza definirebbe “robba da…”, ma che è pur sempre meglio di niente), mentre sull’altra metà campo si allena la nazionale georgiana under 18, e riscopro il piacere e la fatica, a fine allenamento sono distrutto e un po’ imbarazzato per la mia forma penosa. Sono però contentissimo, mi mancava tanto e non me ne accorgevo nemmeno. In doccia mi tiro su sorseggiando anch’io finalmente un po’ di țuică, poi mi rendo conto che ogni spogliatoio di rugby è la stessa manica di cazzoni quando uno dei ragazzi si gira verso di me e mi chiede: “Cum se spune în italiană clitoris?”.

Dan mi porta a casa, mi racconta che lui abita a 75 km da Bucarest, ma si allena comunque due volte a settimana. Parliamo romanește e scopro con soddisfazione di riuscire a esprimermi, che in fondo mi basterebbe poterlo utilizzare così ogni giorno per impararlo bene. L’ultimo mezzo chilometro da Obor – dove mi lascia Dan – a casa lo faccio a piedi, esausto e felice, con una tosse bronchitica e dolori vari e la piccola borsa sportiva appesa alla spalla.

martedì 25 ottobre 2011

Nu sunt țigan!

Sono stato censito in Romania, come residente temporaneo. A suo modo, è stata anche questa un'esperienza. A lasciarmi attonito è stata una domanda: "ethnicity", l'etnia. Io che manco ci ho mai pensato alla mia etnia, non ho nemmeno mai dato peso a cosa significasse. E si che tra i miei interessi c'è anche il nazionalismo. Non so effettivamente qui come sia sentito, tra irredentismi (la Bessarabia, ovvero Moldova: il governo romeno negli anni '90 garantiva il passaporto anche ai moldavi), minoranze con cui il rapporto non è sempre florido (gli ungheresi della transilvania e gli zingari) e partiti nazionalisti che negli anni passati avevano avuto un certo successo (il Partidul România Mare di Corneliu Vadim Tudor). 

La davo talmente per scontata, quella domanda, che ci ho dovuto pensare su un attimo prima di rispondere "italiano". Qua, invece, non sembra così scontato, visto che ho scoperto di una campagna che come oggetto aveva proprio la risposta a quel punto del questionario. Gli țigani, gli zingari, non sempre sono censiti e non sempre dichiarano di essere zingari, per paura di ripercussioni. L'obbiettivo della campagna era proprio spronare gli zingari a dichiarare la propria etnia nel censimento, per fare in modo che le statistiche fossero veritiere e non sottostimassero la reale entità della comunità zingara. Non è un popolo che va molto a genio ai romeni: più volte sono stato fermato per strada da qualcuno e, quando storcevo il viso perché faticavo a comprendere il romeno, il mio interlocutore per rassicurarmi mi diceva "Nu sunt țigan, nu sunt țigan!". Anche all'allenamento di rugby, parlando con uno dei ragazzi, venne fuori l'argomento. Mi raccontò di quando andarono a un torneo a Rovigo e, visto che le loro auto avevano targhe romene, si trovarono le ruote tagliate nel parcheggio fuori dallo stadio Battaglini. Quando ho provato a dirgli che in Italia c'è parecchio pregiudizio verso i romeni, la risposta è stata: "Noi siamo tranquilli, non siamo come gli țigani. Loro sono un problema".

domenica 16 ottobre 2011

Cu ochii deschişi în noaptea tristă

Ieri, mentre a Roma succedeva quel che succedeva, io ero in Piața Revoluției con Silvia. Le raccontavo la storia della rivoluzione romena, le mostravo la galleria d’arte e la biblioteca universitaria che il 21 dicembre 1989 erano in fiamme, le raccontavo il momento in cui i cannoni dei carrarmati dell’esercito si girarono verso il palazzo del Comitato Centrale del Partito Comunista Romeno, le indicavo la bandiera romena nel punto da cui Ceaușescu fuggì in elicottero, le narravo il suo destino e la fucilazione, le mostravo i nomi dei morti durante la rivoluzione e le spiegavo i tratti controversi di una rivoluzione che ancora non è ben chiara agli occhi dei romeni e del resto del mondo. Rivoluzione, colpo di stato, trasformismo del Partito per sopravvivere al malcontento espresso dai cittadini di Timișoara, di Bucarest e del resto della Romania?

La sera abbiamo cenato con un ragazzo pescarese e ci siamo messi a discutere di politica. Del nostro paese e delle sensazioni che ci da. Di nucleare, di Orwell e Huxley, del terremoto de L’Aquila, del voto di fiducia. Li avevo già immaginati fin dal giorno prima, ma parlando con Beppe ho saputo che c’erano stati casini a Roma. Cos’è successo l’ho visto solo stamattina, di ritorno dall’aeroporto. Sono tornato a letto con un senso di amarezza in bocca e ho ripensato a una frase detta da Beppe, dopo che il suo amico Carlo ci aveva detto: “Non parliamo di politica”. La risposta è stata: “Perché no?”. Perché io e Beppe, con vissuti, esperienze e posizioni diverse, eravamo nella mia cucina bucarestina a confrontarci. Disposti ad ascoltarci, a non dire all’altro che la sua opinione è stupida o indegna. Sapevamo perché la pensavamo in un modo, ma ascoltavamo con interesse e rispetto anche le ragioni dell’altro. I fatti erano fatti, le opinioni opinioni. E Beppe ha detto: “Io questa discussione in Italia non l’avrei mai fatta, e c’è un motivo quindi se in questo momento ci troviamo tutti e due, qui, in questa cucina di Bucarest”. Avevo la pelle d’oca, i brividi, e volevo quasi mettermi a piangere.

Forse, come dice Beppe, è un fattore antropologico: noi italiani siamo così, punto. Ed è inutile che ci lamentiamo, perché siamo così, lo siamo da tempo e sempre saremo così. Egoisti, prevaricatori, opportunisti, in fuga dalla responsabilità. A vedere le immagini di Roma, a leggere le cronache e i soliti, scontati, commenti mi viene da dargli ragione. È un giorno triste, pensare che Roma, una delle città più belle del mondo, forse quella con più storia, quella dove stamattina è tornata Silvia, sia stata brutalizzata dalla violenza di un modo di manifestare che non è ricerca di dialogo, ma prevaricazione. Non ho niente contro chi ci è andato con idee genuine e si è trovato suo malgrado in questo casino.

Penso purtroppo però che questi siano meno di quelli che ci vogliano far credere e che molti – nell’organizzazione che è, per definizione, responsabile – abbiano lasciato fare e poi condannato perché volevano fare casino, ma non volevano esserne ritenuti responsabili. Sono stufo di sentire il solito ritornello dei pochi facinorosi, da dieci anni a questa parte. Per un po’ vi ho creduto, ora sono convinto che vi nascondiate dietro un dito o che, peggio, lo facciate per dare la colpa alla polizia. “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”. Non siete la migliore Italia, non siete quello che vi dipingete e che volete convincerci siate. La migliore Italia ieri discuteva al tavolo di una cucina di Bucarest e provava a immaginarsi nella testa un paese migliore, la migliore Italia ieri guardava gli scontri e si poneva domande da un appartamento di Tokyo, la migliore Italia che ieri era a Roma è quella che si è dissociata subito e nei fatti da quanto è successo.

Mi piange il cuore per gli innocenti. Quelli che provano a fare il loro lavoro con serietà e professionalità per trovarsi magari stamattina il negozio saccheggiato. Quelli che sentono dentro la voglia di cambiare il mondo e che credevano veramente che questa sarebbe stata una manifestazione pacifica e utile. Sono degli illusi - a mio parere - e non sto con loro per diversi motivi, ma mi piange il cuore lo stesso per come si dovranno sentire oggi. Quelli che, stando alle cronache, hanno provato a isolare i facinorosi, hanno fatto qualcosa di materiale per dissociarsi e magari si son pure presi le botte. Quelli che, in divisa, hanno cercato di fare il loro meglio per fare in modo che la situazione non degenerasse. Sono quelli che, stamattina, mentre immergevano il cornetto nel cappuccino e baciavano la moglie prima di andare a lavoro, sapevano già che si sarebbero sentiti insultare e dare dei fascisti, che avrebbero dovuto affrontare una giornata dura e che avrebbero dovuto mantenere i nervi saldi per evitare che succedesse qualcosa di male. Quelli che vorrebbero vedere un’Italia diversa e hanno messo le cose in valigia e se ne sono andati con la rabbia dentro (“A chi è andato a vivere a Londra, a Berlino, a Parigi, a Milano o Bologna; ma le paure non han fissa dimora, le vostre svolte son sogni di gloria”), e magari oggi si sentono come mi sto sentendo io a Bucarest, portando sul cuore il fardello di un paese tanto bello quanto ingrato, ottuso e crudele. Quelli che rigettano la violenza, che rigettano la sciatteria, che rigettano certi modi di fare, che rigettano questo mondo di porte chiuse, che provano a creare qualcosa di buono e si trovano sempre umiliati, inginocchiati a piangere di rabbia.

sabato 8 ottobre 2011

Stadionul Naţional şi Arcul de Triumf



Dopo aver lasciato l'aeroporto di Băneasa, la prima cosa che ho visto di Bucarest è stata l'Arcul de Triumf. Mi aveva lasciato a bocca aperta e con un enorme sorriso dentro, mentre il taxi ci passava intorno. Quello è il posto che da anni conoscevo di Bucarest, fin da quando, giornalista di rugby minore e di nazionali misconosciute o decadute, narravo su un blog di informazione le gesta della nazionale romena in quello che è il suo stadio principale, appunto lo Stadionul Arcul de Triumf. Interi pomeriggi a cercare di cogliere il senso da articoli in romeno, e questo prima di accingermi a imparare la limbă e ben prima di immaginare che, un giorno, sarei approdato nella capitale romena. E non come turista, ma per viverci.



Il mio lavoro presuppone che uno dei modi migliori per conoscere un paese, per capire un posto, sia attraverso ventidue uomini in mutande che inseguono un pallone. Mi spaccio per giornalista sportivo e, in mente, ho progetti ambiziosi che vedono lo sport non solo come i succitati uomini in mutande, ma come la chiave di lettura di posti, modi di sentire, ideologie e avvenimenti di tutto il mondo. Gli esempi sono mille e, personalmente, lo sport mi ha permesso di parlare di vicende storiche e politiche dei paesi e dei tempi più disparati: Irlanda del Nord (da dove ho cominciato, mettendo la prima bandierina), Ungheria, Unione Sovietica, Russia, Georgia, Francia, Jugoslavia, Croazia e Serbia, Iran, Egitto, Sudan del Sud, Libia, Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan, Seychelles, Ucraina e - forse inevitabilmente - Romania. Quei palloni che catalizzano passioni, che identificano popoli interi, sono ormai da tempo la mia chiave di lettura preferita per comprendere il mondo. E per cercare, in qualche modo, di raccontarlo a modo mio.



Per questo, forse, una delle prime cose a cui ho pensato quando sono atterrato a Bucarest è stata quella di andare allo stadio. Questo weekend sono riuscito a farlo ben due volte dopo aver visto, solamente da fuori, lo stadio della Dinamo sulla Şoseaua Ştefan cel Mare. Venerdì, grazie a Emanuel, un giornalista sportivo di qui, ho potuto aprire la bocca stupito dalla magnificenza del nuovo Stadionul Naţional, in occasione della partita tra Romania - Bielorussia. E benché i tre gol fatti dai bosniaci al Lussemburgo prima del calcio d'inizio (sarebbero diventati cinque) eliminavano di fatto la Romania dalla corsa ai mondiali, e nonostante il risultato sia stato un deludente (per i romeni) 2-2, mi sono goduto una nazionale di calcio che cercava di dimostrare qualcosa, mi son goduto il ritorno di Adrian Mutu dopo l'allontanamento dalla nazionale e la doppietta con cui si è redento di fronte al proprio pubblico, oltre al primo gol segnato dalla nazionale romena nel nuovo stadio (la partita inaugurale, contro la Francia, era terminata 0-0). Settimana prossima tornerò, stavolta per vedere il Manchester United, una delle mie squadre preferite. Come souvenir, oltre al biglietto dell'incontro, ho anche guadagnato la mia prima bandiera romena, che ora sventola fiera sopra i miei libri nella mia stanza.



Il giorno dopo, sfidando incoscientemente l'improvviso calo di temperatura di Bucarest, mi sono diretto in metropolitana verso l'Arcul de Triumf e, dopo aver girato l'angolo dove c'è il Muzeul Sportului gestito dal comitato olimpico romeno, ho finalmente varcato i cancelli dello Stadionul Arcul de Triumf per assistere alla versione rugbistica dell'eternul derby, il derby eterno tra la Dinamo e lo Steaua, le principali polisportive di Bucarest, un tempo gestite rispettivamente dal Ministero degli Interni e dall'Esercito. Nonostante il freddo che entrava sotto la maglietta, mi sono emozionato ad assistere finalmente a una partita di rugby in Romania, con il pubblico che sgusciava e sputava semi di girasole, con i cori dei tifosi dinamovisti e con le timide risposte dei loro rivali stelisti. Alla fine ha vinto lo Steaua 14-6, mantenendo il secondo posto in classifica e preparandosi ai play-off. Ho qualche contatto importante in mano, ho voglia di capire, di fare e di riprendere a lavorare. Mergem!

Qui trovate le foto fatte a Romania - Bielorussia 2-2 allo Stadionul Naţional, qui invece quelle fatte il giorno dopo a Dinamo Bucureşti - Steaua Bucureşti 6-14 allo Stadionul Arcul de Triumf.

venerdì 7 ottobre 2011

Viitorul unei naţiuni

“Where do you want to go?”
“I want to go to Bucharest, in Romania”
“Why Bucharest?”
“Well, you see…(segue lunga spiegazione dei motivi che mi hanno portato a fare questa scelta)”
“I see. I really hope you’ll get to go, I really hope everyone of you gets to go, actually. Italy, and the Italian University, are in a really bad state and, if you have a chance, I think you should all go. So, I’m doing a little something to get you there”

(dialogo tra me e un professore di inglese dell’Università Statale di Milano durante il colloquio linguistico Erasmus, mentre firmava un “Excellent”)


Ho iniziato le lezioni all’Universitatea din Bucureşti. Il programma, oltre a un corso di romeno, comprende alcuni corsi dalla laurea specialistica in Comparative Politics e un paio dalla triennale in Scienze Politiche in inglese. Transizioni democratiche, politica dell’Europa centro-orientale, nazionalismo e cittadinanza, comunicazione politica e organizzazioni internazionali. Più un corso in romeno che frequenterò più per curiosità e perché penso possa aiutarmi a imparare un po’ la lingua: Dictaturi comuniste şi reprezentări cinematografice.

La prima lezione è stata una specie di bomba lanciata nella stanza per i poveri sventurati studenti italiani: niente lezioni frontali, tanto dibattito (a cui è anche legata parte del voto), una presentazione da fare di fronte alla classe su uno dei testi su cui si lavorerà – facendo attenzione anche alle modalità di esposizione oltre che ai contenuti – e un research paper di venti pagine su un argomento a scelta inerente le tematiche del corso, meglio se corredato da ricerca originale. Tutte cose mai fatte in Italia, come ci siamo trovati ad ammettere alla docente che, con cortesia, ha cercato di spiegarci i principali requisiti del paper. La seconda lezione? Anche qui nessun esame, un corso fatto di interventi di diversi professori – uno diverso a lezione – con diversi punti di vista sulla politica dell’Europa centro-orientale: antropologici, politologici, religiosi, transizionalistici. Anche qui un paper da fare su un argomento a scelta. Per gli altri corsi la solfa continua a ripetersi e, per il povero sprovveduto italiano pasta pizza mandolino mamma, comincia a salire l’ansia e la depressione.

I romeni sembrano fare a gara per dire che la Romania è una backward country (come d’altronde facciamo anche noi con l’Italia). Eppure com’è possibile che ci abbiano lasciato al palo anche loro? Han lasciato al palo noi, con la nostra cultura, con il nostro orgoglio sui grandi nomi italiani che hanno fatto la storia, l’arte, la musica, la letteratura, la scienza. Ora, io non so se sono capitato proprio male all’Università degli Studi. So solo che altri studenti italiani si trovano spaesati e disorientati come me e che l’impressione che continua a confermarsi è che lo stivale si stia trasformando in una deadly swamp, una palude mortale. Ho letto diversi articoli a riguardo, quello che mi aveva più colpito ammoniva chi scaricava tutte le colpe sui governi e sulle riforme Moratti e Gelmini. E diceva che l’Università la fanno anche, e soprattutto, studenti e professori.

Io, quando mi sono iscritto all’Università di nuovo dopo una laurea inutile, mi son depresso parecchio. Cosa ci facevo io a 26 anni, con una laurea e con tante belle idee in testa, in mezzo a uno sciame di ragazzetti schiamazzanti e maleducati, incapaci di non comportarsi come porci a lezione e irrispettosi per il diritto dei loro compagni di ascoltare e far tesoro della lezione? Mi sentivo impotente, avrei voluto mettermi a gridare quando il professore di storia, scorato, terminava in anticipo una lezione che io ascoltavo pendendogli dalle labbra perché il brusio e il disinteresse generale era troppo palese anche per lui. E mi irritavo, al corso di lingua inglese e comunicazione, a dover partecipare a delle lezioni da elementari in cui si ripetevano in continuazione le parole chiave e in cui mi veniva voglia di correggere certe traduzioni della professoressa (all’esame mi diede trenta, mi disse “Le è piaciuto questo corso? Mi dica la verità, io penso fosse troppo facile per lei). Mi sono trovato meglio quando ho cominciato a frequentare solo quello che veramente mi interessava (geopolitica, studi strategici, politica dell’UE) e a dare da non frequentante il resto. E quando ho dato l’esame del professore della mia tesi, cominciato con l’epica domanda “Allora, come lo salviamo quest’Euro?”, mi ha dato forte soddisfazione sentirmi dire che apprezzava la volontà di spaziare, di creare collegamenti e di non fermarsi solo al libro di testo. “Ma tanto – disse il professore – storia dell’integrazione europea tra qualche anno non si studierà più, o si studierà solo come si studia la storia dei greci e dei romani”.

Rassegnazione, penso che per molti professori la sensazione sia quella, o almeno è quello che trasmettono. Però penso debba partire da loro e dagli studenti un moto di orgoglio, una consapevolezza che quello è un luogo di crescita e non di bivacco, un coraggio di rischiare e proporre novità e nuovi modi di coinvolgere, apprendere e fare apprendere. Di fronte alla porta dell’ufficio Erasmus alla Facultatea de Drept c’è una citazione di Erasmo da Rotterdam e, a ragionarci sopra, viene da mettersi le mani tra i capelli e disperarsi:

“The main hope of a nation lies in the proper education of its youth”
(Viitorul unei naţiuni este hotărât de modul în care aceasta îşi pregăteşte tineretul)

martedì 4 ottobre 2011

Mai mulţ


Oggi ho camminato parecchio per Bucarest. Ho scoperto degli angoli veramente mozzafiato in Strada Mihai Eminescu e in Piaţa Pache Protopopescu, ho visto le ambasciate di India e Grecia e una via con un nome splendido, Strada Viitorului, via del Futuro. Ho camminato per le vie un po’ dimesse vicino a Parcul Cişmigiu. Ho girovagato per Lipscani e Strada Franceză e mangiato in un restaurant libanez. Ho percorso la Calea Victoriei dal centro vecchio fino a Piaţa Revoluţiei. Ho rivisto la fontana, per l'occasione tinta di rosso, nella bella Piaţa 21 Decembrie 1989. Mi sono goduto un’altra volta la passeggiata notturna per tornare da Piaţa Universitaţii a casa mia, fermandomi in almeno due momenti ammirato da qualche angolo particolare e sorridendo tra me e me per i florarie non-stop, uno a ogni angolo del semaforo vicino a casa nostra. Oggi camminavo per la Calea Moşilor, il sole negli occhi, l’odore delle varie patiserie, gogoserie, covrigarie nell’aria, la musica nelle orecchie (Olenka degli Ukrainians e I Only Want You degli Eagles of Death Metal) e ho cominciato a cercare di fare un bilancio del mio primo mese in Romania, delle cose più belle e più brutte della città in cui vivo. Non sono riuscito a stilarle così, mentalmente, quindi ci riprovo ora, a metterle per iscritto, sotto forma di “le cinque cose più” (a noi Nick Hornby ci ha rovinato).


Le cinque cose più brutte
  1. Il tizio che si masturba e piscia per terra sulle scale del nostro palazzo, cercheremo di contattare l’amministratore e vedere se può fare qualcosa.
  2. Un certo senso di negligenza e dimissione generale, con la sporcizia, i cani (che in realtà ormai non mi fanno più effetto).
  3. L’impressione che si siano fatte cose ultramoderne senza prima pensare ad alcune cose fondamentali prima, come si vede in metropolitana, sui mezzi pubblici, in diversi palazzi e in tante strade. E anche al Parcul Tineretului: vulcani di vapore, rapide, attrezzi di fitness simil-gioco per bambini a disposizione, fiere, ruote panoramiche e campi sportivi a profusione. Nemmeno una fontanella per bere, e mezzo parco al buio per un black-out.
  4. L’impressione di diffidenza e freddezza di molta gente. Magari però dovuta al fatto di conoscere pochi romeni: i pochi conosciuti finora invece mi hanno fatto una gran bella impressione, ma all’impatto con gli sconosciuti si avverte un senso di ruvidezza quasi eccessivo.
  5. Alcuni episodi da amaro in bocca: il bambino che durante il concerto degli Zdob şi Zdub raccoglieva da terra bottiglie e lattine vuote in mezzo al pubblico, i bambini che chiedono l’elemosina anche di sera, il tizio che ha cercato di venderci un rolex per strada in pieno giorno, la signora che mentre entravo in metropolitana mi si è appiccicata al culo per non pagare il biglietto, i taxisti che cercano di farti fesso.
Le cinque cose più belle
  1. Il mio appartamento e la sensazione di avere una casa “mia”. La mia stanza, il soggiorno (dove spendo tantissimo tempo), la cucina, le cose da cucinare, le cose da riordinare, la spesa da fare, i piatti da pulire, i coinquilini, il caffè, lo sferragliare tintinnante del tram nella strada, le mie chiavi, il divano di cui ho ormai preso possesso, la voglia di tutti noi di renderlo veramente nostro, in diversi modi. E la sensazione che, nonostante la convivenza richieda sempre compromessi, finora tutti si sentano a casa.
  2. La facilità con cui spunta qualcosa di meraviglioso anche in mezzo alle vie più squallide, un palazzo, un parchetto, una fontana, una via non deturpata dai palazzoni stile Ceauşescu, un angolo suggestivo, una biserica ortodossa o armena, una statua o un busto di qualcuno, un negozio o una bancarella interessante.
  3. Le vie di Bucarest e le cose che rendono una via di Bucarest una via di Bucarest: i cani (si, anche quelli, ormai ci sono abituato), le bancarelle di libri onnipresenti in zona Universitate, le patiserie/gogoserie/covrigarie che ti servono alla finestra e che spandono odori fragranti nell’aria, i florarie non-stop, i cavi del tram e dei troleibuz sospesi per aria di fronte alla lua, i palazzi illuminati di notte, l’atmosfera bellissima della città di notte.
  4. L’impressione che il centro del mondo sia stato traslato di duemila chilometri a est, di vivere in un mondo parallelo dove le istruzioni sono (forse) in inglese, poi in romeno, sloveno, serbo, polacco, ungherese, russo, macedone, albanese, greco, turco, ucraino e solo poi magari francese. In un paese che non è bagnato dal mar Mediterraneo ma dal mar Nero, che non confina con il calduccio europeo di Francia, Austria e Svizzera, ma con posti “esotici” come Bulgaria, Serbia, Ungheria, Moldova e Ucraina. La necessità di imparare una nuova lingua, anche se c’è la frustrazione di non riuscire a esprimersi come si vorrebbe. Le vecchie Dacia azzurre o gialle. La storia e l'iconografia di un periodo che noi sentiamo ormai così lontano come quello comunista ancora ben presenti, a darci una lezione di storia, di attualità e di com'è il mondo dove viviamo al di là del nostro naso.
  5. La voglia che ho di rimettermi in gioco, di incontrare persone, di lavorare, di mettermi alla prova, di viaggiare, di scrivere, di trovare storie da raccontare, di sfruttare il più possibile il mio soggiorno qui e il fatto di essere in un posto nuovo, non scontato, non conosciuto.


Oggi all’incrocio tra il Bulevardul Carol I e la Calea Moşilor la luna splendeva in cima a un palazzo, schermata dai cavi del tram numero 21. Come si fa a non innamorarsi di questa città, per contraddittoria che sia?