martedì 14 febbraio 2012

Dincolo de granița (Hardcore Moldovenesc part III)

Sono in ex URSS, ho passato il Prut, quel piccolo fiume che divide il mondo europeo che guarda a Bruxelles da quello ex sovietico, ancora condizionato da Mosca. In un paese dove fino al 2009 era in carica il Partito Comunista e che si trova senza un presidente da due anni, incastrato in una crisi politica per la quale non si vede nessuna soluzione. Mi piace guardarmi intorno e cercare di trovare le differenze. Tanti passaggi a livello senza barriere, qualche scritta in cirillico che comincia a fare capolino, qualche carrozza con i cavalli parcheggiata in strada, i nomi delle città che, da romaneggianti, diventano più marcatamente russofoni, come Romanovca, Alexeevca, Agronomovca e Hristoforovca. Iuri morde l'asfalto sulla ripida ed innevata salita di Cornești, di cui ero stato avvertito, poco dopo un piccolo gommista che ha intitolato la sua impresa "Sampdoria". Viene quasi da chiedersi come riesca la maršrutka a inerpicarsi tra la neve, mentre il motore brontola sommesso.


Mentre il sole cala e il cielo si fa scuro, dopo circa quattro o cinque ore di viaggio, raggiungiamo finalmente Chișinău. La gente continua a salire e scendere a fermate non segnalate, io mi guardo intorno. Su un muro c'è scritto Moldova e România (di solito in Romania si scrive la stessa cosa, con la parola Besarabia al posto di Moldova), mentre qualcuno ha corretto con un not e ha disegnato una falce e martello con la scritta CCCP in rosso. Arriviamo all'autogara che si trova vicino alla piața, il mercato principale di Chișinău. Vado a fare una scheda telefonica moldava e chiedo indicazioni per l'ostello, me lo cercano su internet e mi dicono di prendere il bus. Chiamo Vlad, il mio contatto a Chișinău e mi dice che posso andare a piedi: basta raggiungere il Bulevardul Ștefan cel Mare și Sfînt, il viale principale che dista duecento metri dalla stazione, e dovrei vederlo. Peccato che abbia capito che stia in un hotel omonimo al mio ostello, mentre il mio ostello si trova a tre chilometri di neve dall'autogara. Li faccio, ad ogni modo, col borsone in spalla, avventurandomi nella neve per una città che, al primo impatto – forse per buio, freddo e presenza delle forze dell'ordine – risulta un po' inquietante.



Sorrido vedendo dei manifesti rugbistici, chiedo indicazioni e mi scontro con l'accento moldavo, con il loro pronunciare ie al posto di e, con il loro pronunciare le o quasi come fossero a e con le loro elle arrotondate, lasciti di cinquant'anni di russificazione forzata. Passo di fianco a una grossa chiesa illuminata nel buio e, fin dall'altra parte della strada, si sollevano canti religiosi nell'aria. Rimango incantato e fotografo, e un passante attacca bottone: nonostante sia comunque presente, sembra minore la diffidenza dei moldavi, sembrano ancora aperti e disposti a fare due chiacchiere con uno sconosciuto, condividere con lui un pezzo di strada. Mi chiede perché fotografo, gli dico che sono turista, mi chiede se voglio vedere la chiesa ma gli spiego che voglio solo raggiungere il mio ostello e riposarmi dopo un lungo viaggio. Arriva l'attraversamento stradale, lui è diretto proprio alla funzione e mi saluta.


Attraverso un ponte che, invece di sovrastare un fiume, o una strada, divide la città da una specie di parte bassa della città con tanti tetti di lamiera, una manciata di luci e tanti latrati di cane. Fatico a trovare l'ostello, è alla fine di una via buia, resa sinistra dal fischiare del vento, ma finalmente posso appoggiare il mio bagaglio e entrare in un posto caldo. I ragazzi che lavorano lì sono anche gentili, mi offrono un piatto indiano e delle gran sorsate di Kvint, il famoso cognac della Transnistria, prodotto a Tiraspol'. Parliamo, intorno al tavolo. Io, un inglese, un olandese, una moldava, un canadese e uno statunitense. Gli ultimi due lavorano per l'ostello, hanno un visto valido per tre mesi e l'hanno lasciato scadere: sono praticamente clandestini e raccontano che qualcuno gli ha proposto una maniera per "pagarsi" i timbri per il rinnovo. Ancora più che l'Italia, ancora più che la Romania, la Moldova e tutta l'ex Unione Sovietica si sono fatte un nome per il loro grado di corruzione, per l'idea che tutto – proprio tutto – si possa comprare e abbia un prezzo.


Ci sbellichiamo dalle risate parlando di pesci lassativi e di siti che recensiscono le prostitute di Amsterdam, ma il discorso verte più che altro sulla Transnistria, sui passaporti, sul futuro della Moldova. La ragazza moldava dice che da un punto di vista è una fortuna: basta un passaporto, e nessun visto a pagamento, per visitare sia l'Unione Europea sia Ucraina, Bielorussia e Russia, anche se questo cambierà nel momento in cui la Romania entrerà in Schengen. L'idea che rimbalza è quella dell'integrazione europea, resa impossibile dalla questione transnistriana, oltre che difficile da tutta un'altra serie di ragioni economiche e politiche e da un'ampia serie di contraddizioni. A due passi dai recinti e tetti di lamiera e filo spinato della Strada Arborilor dove mi trovo sorge il Mall Dova, un enorme centro commerciale a quattro piani ("Il più grande di tutta la Moldova", ci tengono a sottolineare) con una riproduzione in scala della torre Eiffel, un'avveniristica fontana e, a parte il negozio di alimentari, una serie di catene occidentali con prezzi che stridono con i salari che vengono pagati normalmente in Bessarabia. Davanti al Mall c'è la fermata dei troleibuz, considerati dai moldavi una delle poche cose buone lasciate dai russi. Nonostante alcune carrozze nuove siano state acquistate dalla città di Chișinău con i fondi concessi dall'UE, sono ancora molti i residuati che si muovono per le strade della capitale, e i ragazzi mi raccontano di mezzi che prendono fuoco dalle ruote posteriori costringendo gli autisti ad evacuare la carrozza, o di pannelli del pavimento che saltano in aria con uno scoppio mentre il mezzo è in movimento. Sono sfinito, vado a letto. Quando entro in bagno noto la carta igienica, diversa dalla nostra: l'avevo vista così in un documentario ambientato in Ucraina. Non tutte le carte igieniche riescono col buco e, in ex Unione Sovietica, non si mette il rocchetto di cartone in mezzo: il rotolo è solo un rotolo di carta igienica, stretto e avvolto su sé stesso. Per me è anche un ulteriore segno che mi ricorda che qua siamo in un altro mondo, leggermente sbilenco rispetto al nostro.


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